Campi incolti case, stalle laboratori, botteghe… Bussole – Inviti a letture per viaggiare – di Claudio Visentin
«Ci fu un’estate, una ventina d’anni fa, in cui realizzai che mia nonna se ne sarebbe andata. Stava benino, intendiamoci, e neppure era vecchia. Ma se ne sarebbe andata di lì a poco. Lo sapevo punto e basta. Fu in quell’estate che passai interi pomeriggi a intervistarla. Faceva un caldo bestiale quell’anno…»
C’era una volta l’Appennino, spina dorsale d’Italia. Poi sono venute le guerre mondiali, le emigrazioni per lavoro o scelta di vita, che hanno lasciato in eredità ai figli dei figli dei gli una vecchia casa in qualche paesino, da passarci le estati al fresco, in mancanza di meglio.
Uno di loro, Riccardo Finelli, ha cercato di riannodare i li del suo passato e al tempo stesso ha provato a capire cosa è rimasto di quello che un tempo era un vitale tessuto di boschi, campi, case, laboratori, botteghe, stalle, strade, sentieri… Per farlo nel 2013 ha infilato 2300 chilometri in scooter attraverso 195 comuni, lo spartiacque appenninico per intero: da Passo Giovi, alle spalle di Genova, a Melito di Porto Salvo, in Calabria, esattamente la punta dello Stivale.
Il primo verdetto è stato poco confortante: non ha trovato molto che avesse ancora voglia di stare al mondo, tra paesi svuotati e divorati dal bosco, vallate che galleggiano su frane inarrestabili, campi incolti, orizzonti annichiliti da pale eoliche e viadotti. Un Appennino post-agricolo, post-armentizio, post-industriale, post-turistico, e anche post-abitato da quando i suoi abitanti si sono dimezzati (a essere ottimisti).
Ma l’Appennino è da sempre terra di resistenze, e anche quando tutto sembra finito resta comunque la voglia di nuovi inizi, che guardano però al futuro più che al passato. Un Appennino laboratorio di diversi stili di vita, più sobri e solidali, di nuove convivenze, di un diverso rapporto con la natura.