Grandi Momenti – di Claudio Morandini
In Grandi Momenti (Neo Edizioni, 2016) Franz Krauspenhaar mette in scena i rovelli di Franco Scelsit, scrittore ultracinquantenne reduce da un infarto. Scelsit, autore di buona cultura e discreta fama, ha in realtà fatto successo (un successo iperbolico, viti gli anticipi che gli sgancia il caricaturale editore da autogrill) sfornando noir usa-e-getta sotto altro nome (Rodolfo Simonetti), incentrati sulla figura monodimensionale del detective Stan Dolero. E proprio con gli strumenti retorici del noir, le similitudini falliche e le metafore maschiliste, l’enfasi spiccia e brutale del cinismo a manetta, le disquisizioni alcoliche, i riferimenti cinematografici (più che letterari), un certo vittimismo sentenzioso, perfino il ricorso a cliché regionali e classisti, Scelsit per affrontare e raccontare la convalescenza e la persistente paura di una ricaduta, del colpo definitivo, della morte. Colleziona donne (che vengono immancabilmente etichettate secondo una nomenclatura assai poco lusinghiera) e auto da corsa, si concede con le persone rapporti veloci e tutto sommato inconsistenti, nei quali simula e dissimula alla ricerca di un equilibrio che non riesce a trovare. Lo vediamo architettare insomma un bluff molto elaborato in cui gioca molto seriamente a essere sano, potente, veloce, indipendente, autentico, mentre il pensiero della malattia, della mediocrità, della frustrazione, della finzione, continua a infilarsi ovunque – e Franco è tornato a vivere da sua madre, a sua volta ineludibile memento dei guasti che provoca la vecchiaia.
I viaggi forsennati in auto non sembrano, a questo punto, un modo per affermare un desiderio di vita (“Un inno alla vita” è definito il romanzo in quarta di copertina), ma un cupio dissolvi che mi ha ricordato subito le corse notturne in Ferrari del Toby Dabbit di Fellini (in Tre passi nel delirio, da Poe): un riferimento che chiunque abbia più di cinquant’’anni avrà ben presente.
Accettiamo alla fine l’insistita e anche molesta parodia del cinismo hard boiled perché vi intuiamo dietro la fragilità declinante di un uomo malato che si aggrappa al successo ottenuto solo fingendo di essere ciò che non è, e vive, in effetti, in una sorta di limbo dell’esistenza. A ricordare questa dimensione privata, nascosta, ci sono i dialoghi con il fratello, l’unico confidente vero di tutto il romanzo, le allucinazioni, o se volete, le apparizioni fantasmatiche dal sapore cinematografico (il padre morto sotto forma di gigantesca lepre) e i momenti in cui spazio e tempo si sfasano, il narrare si trova a rivivere il passato, o a vivere un passato che non sembra nemmeno il suo.
Nel descrivere il suo dolente e sofferente personaggio, Krauspenhaar dissemina numerosi dettagli che rimandano a una dimensione autobiografica; non lasciamoci ingannare dalle affinità, in questo romanzo anche l’autofiction sembra un tranello.
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